Riccardo Prisco s.r.l. / Amministrazione delle Finanze dello Stato,
Nel 1972 un decreto del Presidente della Repubblica (in prosieguo: "D.P.R.")
ha istituito una tassa di concessione governativa sull'iscrizione nel registro
delle imprese di vari atti societari (costituzione, aumento di capitale, proroga
della durata della società, modifica dell'oggetto o del tipo di società,
fusione e altri): il suo importo variava in base alla forma della società
per quanto riguarda l'atto costitutivo ed era unico per gli altri atti. A decorrere
dal 1984 la tassa per l'iscrizione dell'atto costitutivo era dovuta ogni anno.
Nel 1993 la Corte di giustizia pronunciò una sentenza nella causa Ponente
Carni, che indusse vari giudici italiani a dichiarare la tassa di concessione
contrastante con la direttiva 69/335/CEE, riguardante le imposte indirette sulla
raccolta di capitali; ma la Corte dichiarò parimenti la legittimità
dei diritti di carattere remunerativo rispetto al costo di operazioni imposte
dalla legge per uno scopo di interesse generale anche se, fatte salve alcune
condizioni, detti diritti erano calcolati forfettariamente.
Un decreto legge del 1993 fissò quindi l'importo unico di lire 500 000
per l'iscrizione dell'atto costitutivo (abolendo la riscossione della tassa
per ogni anno successivo) e l'importo di lire 250 000 per tutti gli
altri atti.
Di conseguenza, parecchie persone si rivolsero ai giudici italiani per ottenere
la restituzione di tasse di concessione indebitamente versate tra il 1985 e
il 1992.
In tale contesto, nel 1996 la Corte Suprema di Cassazione ebbe a dichiarare che detta restituzione era soggetta, per quanto riguarda le tasse versate per errore, ad un termine di decadenza di tre anni a decorrere dal momento del pagamento previsto dal decreto del 1972.
Invitata a pronunciarsi sulla compatibilità di detto termine con il diritto
comunitario, la Corte di giustizia, in talune sentenze del 1998 (Edis e a.),
dichiarò che gli Stati membri conservavano il diritto di opporre un termine
di decadenza alle domande di restituzione di tasse riscosse in violazione del
diritto comunitario, anche se tale termine era meno favorevole di quello della
ripetizione dell'indebito tra privati, purché esso si applicasse sia alle
azioni basate sul diritto comunitario sia a quelle basate sul diritto nazionale
e non fosse specificamente adottato vanificare dette domande di restituzione
a seguito dell'accertamento dell'incompatibilità delle tasse di cui trattasi
con il diritto comunitario.
La Corte di giustizia aggiunse anche che le modalità di calcolo degli
interessi sulle somme da restituire potevano, anch'esse, essere meno favorevoli
che nelle azioni tra privati, a condizione che le modalità fossero equivalenti
a quelle applicate per i procedimenti basati sul diritto nazionale per lo stesso
tipo di tasse.
Una legge del 1998 (la finanziaria per il 1999) istituì retroattivamente
nuove tasse di concessione per gli anni 1985-1992 secondo le modalità seguenti:
pagamento (una tantum) di lire 500 000 per l'iscrizione dell'atto
costitutivo e versamento forfettario annuo per l'iscrizione degli altri atti.
La legge precisava che la domanda di restituzione delle vecchie tasse indebitamente
versate doveva essere presentata entro tre anni dalla data del pagamento e fissava
un tasso d'interesse che, secondo i giudici interpellanti, era inferiore a quello
applicabile alle domande dello stesso genere basato sul diritto nazionale.
Le questioni pregiudiziali vertono sostanzialmente su tre punti:
1. Le tasse retroattive
Le parti hanno sostenuto che la remunerazione del servizio fornito per l'iscrizione
è già stata coperta da diritti di cancelleria riscossi per altro verso
e che, comunque, le tasse non sono retributive di un servizio reso poiché
talune vengono riscosse senza un'effettiva iscrizione e i costi effettivi del
servizio non sono stati previamente calcolati.
La Corte ricorda che questo tipo di tasse è vietato dalla direttiva salvo
nel caso in cui abbia carattere remunerativo.
In pratica le tasse forfettarie retroattive istituite nel 1998 si aggiungono
alle tasse analoghe già versate tra il 1985 e il 1992: pur se, a causa
del termine di decadenza, queste ultime non possono essere restituite, non si
può attribuire alle tasse retroattive un carattere remunerativo.
Viceversa, per quanto riguarda le società che possono esigere la restituzione,
spetta ai giudici nazionali accertare se le tasse retroattive abbiano o no carattere
remunerativo alla luce dei criteri già stabiliti dalla Corte.
Riferendosi ai diritti di cancelleria, la Corte ricorda ai giudici nazionali
che gli Stati membri sono, eventualmente, liberi di riscuotere parallelamente
più remunerazioni, purché il loro totale non superi il costo del servizio
fornito. Essi possono anche prendere in considerazione l'insieme dei costi delle
operazioni, compresa la frazione delle spese generali loro imputabili.
2. Il termine di decadenza
In conformità alla propria giurisprudenza (Edis, 1998), la Corte ribadisce che l'interpretazione fornita dalla Corte Suprema di Cassazione del 1996, rispecchiantesi nella legge del 1998, riguardava una disposizione già vigente prima delle dichiarazioni di incompatibilità che costituivano oggetto della sentenza Ponente Carni del 1994 e concerneva tutte le tasse di concessione italiane.
Di conseguenza, il diritto nazionale può prevedere un termine di decadenza
triennale derogante al regime della ripetizione dell'indebito tra privati, giacché
esso si applica allo stesso modo alle azioni di ripetizione basate sul diritto
nazionale.
Peraltro, detto termine non rende praticamente impossibile o eccessivamente
difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario,
giacché la sua osservanza si valuta a decorrere dal momento in cui è
stata presentata la domanda di restituzione. Quindi, la legge del 1998 non modifica
la normativa previgente.
3. Le modalità del calcolo degli interessi applicabili alle somme
restituite
Le parti fanno valere che alla restituzione delle tasse dichiarate contrastanti
con il diritto comunitario a seguito della sentenza Ponente Carni viene applicato
un tasso sfavorevole.
La Corte, sulla falsariga della propria giurisprudenza, dichiara che le modalità
di restituzione devono applicarsi indifferentemente ai ricorsi riguardanti infrazioni
del diritto comunitario e a quelli relativi all'inosservanza del diritto nazionale.
Talune modalità di calcolo possono essere meno favorevoli per la restituzione
di tributi indebitamente riscossi, rispetto alla ripetizione dell'indebito tra
privati, purché tali modalità si applichino allo stesso modo alle
azioni basate sul diritto nazionale e a quelle basate sul diritto comunitario.
Tuttavia, la restituzione di un tributo che è stato dichiarato contrastante
con il diritto comunitario a seguito di una sentenza della Corte non può
essere assoggettata a condizioni specifiche meno favorevoli di quelle si applicherebbero
in loro mancanza.
Spetta al giudice nazionale accertare se le circostanze di fatto debbano indurre
a non applicare il tasso d'interesse previsto dalla legge del 1998.
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